facebook

Premiati

6° Concorso Letterario Nazionale Amilcare Solferini 2023

Premiati

2° Concorso Lingua Piemontese

Gipo Farassino 2023

Concorso Letterario Amilcare Solferini 
www.amilcaresolferini.com

facebook

facebook

facebook
350814017_590478189850273_5223949578799410576_n.jpeg

 

Marchinetti Elisa

1° Classificata Categoria Racconto Breve

 Concorso Letterario Nazionale Amilcare Solferini 2023

350700710_2481756195308161_1124930318699839232_n.jpeg

                   Ti devi voler bene

                                                                            

                                                                  Amare se stessi è l’inizio di una storia d’amore lunga tutta una vita.                                                                                                                                                                                                                                                                

                                                                                                              ( O.Wilde)

Di finire in un posto del genere Gina ci aveva sempre pensato.

Eccome. Specialmente da quando era rimasta vedova.

Una prospettiva  dolorosa che  tutte le volte aveva allontanato scuotendo il capo e agitando velocemente una mano davanti a sé, come per scacciare una mosca fastidiosa.

Ma soprattutto per rivendicare la sua natura indomita ed indipendente che andava a braccetto con  quell’autonomia conquistata a fatica e spavaldamente esibita alla faccia delle sue novanta primavere. 

Perché di coraggio e forza la donna ne aveva da vendere.

E lo aveva dimostrato già alla nascita quando,  poco più grande di due mani unite a coppa, ma con l’ugola da soprano, aveva deciso che era giunto il tempo di scoprire la vita. Ma prima del tempo previsto, in barba alle previsioni delle comari, al responso del dottore e alla luna  e alle sue fasi.  A sette mesi  era già tempo  per lei di affacciarsi al mondo.

“Un bel caratterino, non c’è che dire”, aveva sancito la levatrice, mentre l’avvolgeva delicatamente in una calda coperta.

E la madre,  già provata per il parto,  non riuscì a replicare, ma  si fece  due volte il segno della croce  più per scongiurare futuri guai che ad invocare un miracolo. Anche se di quello la piccola Genoveffa aveva proprio  bisogno, data la sua nascita prematura, oltre a cibo sostanzioso e cure costose. Ma  dei tre solo in una grazia poteva sperare perché le uniche spese che i suoi genitori poterono affrontare furono per le candele del piccolo oratorio del borgo, dove oltre ai  tanti  Pater Noster,  consumarono lacrime e sospiri. 

Per il resto latte di vacca appena munto e rubato di nascosto al fattore e una pappetta di acqua e farina.

Di tanto in tanto, e solo nelle feste comandate, un po’ di  brodo ristretto di cappone.

Ma si sa. A volte la vita riserva sorprese ed esibisce la sua  grinta sfacciata nella testimonianza della sua forza.

E così la piccola crebbe, a dispetto delle nefaste  sentenze del medico sulla sua  sopravvivenza,  prevista non oltre l’anno di vita,  al ritmo delle tribolazioni  della sua famiglia e, forse, da quelle ben temprata. Un fragile virgulto che in altezza non raggiungeva il banco di scuola, ma che spiazzava per velocità e furbizia  gli amichetti  e i fratelli nei giochi da cortile e nei calcoli a mente.

“Allora, quanto fa quattro più cinque?” chiedeva spazientita la maestra. Nello smarrimento generale dei bambini, molti dei quali più dediti a maneggiare vanghe e roncole che a destreggiarsi  fra  sillabe e numeri,  l’unica mano sempre alzata, anche se a malapena visibile, era la sua.

“Brava Genoveffa”, esclamava l’insegnante che nel pronunciare il suo nome, per via di una dentatura più simile a quella di un cavallo e di un’ampia  finestra fra i due incisivi superiori, spruzzava aria e un po’ di saliva sui bambini seduti nei primi banchi. Il risultato una sghignazzata corale a malapena trattenuta e la ferma convinzione da parte della piccola che quel nome andava cambiato.

Una certezza mai scalfita da una lacrima, né  da una violenta reazione,  ma esibita  con gli occhi strizzati e la mascella serrata. E lo sguardo da combattente.

“Ma è il nome della tua bisnonna!”, ripeteva immancabilmente la mamma ogni volta che doveva tenere a bada l’insistenza e la caparbietà della figlia.

“Ed è la protettrice dei pastori e della polizia”, continuava la donna con tono petulante,  mentre la figlia proprio a quest’ultima si sarebbe rivolta  pur di eliminare dalle sue orecchie  quel che più di un nome le sembrava un suono malriuscito.

Raggiunta la maggiore età la ragazza  optò a favore di un breve e secco “Gina”.

Da quel momento in poi e  per tutti Gina!

Poche sillabe che a suo dire, se ben pronunciate, risultavano anche dolci e  che di certo  non davano adito a nessuna risata  o inconsuete storpiature, quali  Geffa,  Veffa o Vaffa  che fosse.

“Gina!” rispondeva fiera ai ragazzi che la invitavano al  ballo, lasciando di stucco le amiche. 

Il suo Piero. L’aveva conosciuto  proprio ad una sagra di paese, ai bordi  della pista da ballo dove, aspettando il cavaliere di turno, canticchiava e  accompagnava con il corpo le allegri melodie. Un po’ di spensieratezza, qualche chiacchiera in compagnia e la musica a riempire i buchi  dell’anima dopo il periodo buio della guerra.

“Facciamo questo ballo, Gina?”

Complice il venticello estivo e l’euforia, data forse  da un goccetto di malvasia di troppo, lei accettò quell’invito senza badare più di tanto allo sconosciuto che  presala per mano iniziò a guidarla dolcemente, cingendole la schiena con delicatezza e che per l’agilità  sembrava nato per fare il ballerino.

“Sei leggera come una farfalla”, le bisbigliò lui all’orecchio, trasportandola in un veloce caschè.

Cosicché lieta e lieve danzò per ore al braccio del Fred Astaire di provincia, tra  mormoriii vari  e gli sguardi compiaciuti delle amiche ed i timori  della madre.

Timori più che fondati perché il vestito che la figlia aveva ostinatamente, ma proprio ostinatamente voluto indossare, nonostante il diniego della sarta, era in alcuni punti ancora imbastito e chiuso sui fianchi e sul petto da spille da balia. Nulla di scandaloso accadde, fortunatamente, quella sera, sotto lo sguardo vigile della donna che aveva seguito con trepidazione e sudore freddo  ogni piroetta della coppia.

Ed il fazzoletto a portata di mano per l’evenienza.

Accadde, invece, la magia  perché i due da quella sera  imbastirono  una lunga ed amorevole  storia d’amore coronata  nelle nozze d’oro. 

Di ripensare al passato e di quel che restava del giorno le capitava spesso  ultimamente.

Per lo più sul far della sera, quando il buio ed il silenzio accompagnavano ed agevolavano il dilatarsi di un  silente malessere  e la nostalgia del tempo trascorso bussava impietosa a rammentarle gli anni che furono. E prima, prima di finire in quel centro, le  succedeva anche  alle feste di famiglia che l’unica nipote rimastale organizzava,  in cui davanti alla tavola imbandita sorrideva in compagnia, pur presagendo  il dolore  in solitudine, e insieme a due dita di spumante ingoiava  il gusto amaro  di un’esistenza dispari. 

Non che  si trovasse male a ”La casa serena”, dove era accudita e servita  e circondata da personale affabile e preparato. Nulla da eccepire su quel versante. 

Ma  lì aveva capito che la  propria solitudine pulsa e duole  di più se riflessa in altri speculari isolamenti e smarrimenti.

Di certo, avrebbe preferito trascorrere gli ultimi anni nel proprio ambiente, in quell’appartamento di cui conosceva ogni centimetro quadrato. Quel nido che a lei e al suo Piero era costato una vita di sacrifici e di rinunce, dove ogni singolo elemento rammentava loro  la gioia della conquista ed il gusto dell’indipendenza economica raggiunta.

Conservava ancora in cantina le posate, poche, ed i piatti, otto in tutto, ricevuti come dono di nozze e ancora vivida  nella mente  la prima  cena a due.

In un tinello ancora piuttosto spoglio e freddo  con  una cassetta da frutta come tavolo. E la luce fioca di una lampadina ad illuminare l’ambiente ed  il loro  magro inizio.

Un esordio tribolato ed in salita che Gina rammentava bene: lei a pulire androni e scale di condomini e ad asciugare piatti al ristorante nei fine settimana, lui a preparare e portare secchi di  calce e a piantare chiodi per un impresario del paese. E la pila di pagherò, puntuali come Natale a Dicembre,  da onorare a fine mese. 

Impiegarono anni a lasciarsi alle spalle l’ansia del calendario e quella vita di  rinunce che, anziché separarli, li aveva uniti nel nome  della complicità nella quotidianità. Negli sguardi, come nei semplici  gesti, si compiva  la sacralità di un amore ben custodito.

“ Genoveffa, vuole una tazza di te?”

L’anziana non rispose. 

“Genoveffa, gradisce un te?”, le ripetè l’assistente, scandendo lentamente le parole.

“Se la offre a Gina, l’accetto volentieri, grazie!“, sottolineò l’anziana che con gli anni non aveva perso  il suo  puntiglio.

Anche Piero le preparava il te, alla Domenica pomeriggio. Era  il loro rito.

Lo sorseggiavano lentamente ed in silenzio, lasciando che un silenzio pieno  parlasse per loro e di  loro. 

Prima della sua malattia, era toccato a lei quel preparativo.

“Non è buono come il mio, ma è gradevole”, riuscì a dirle un giorno tossicchiando tra una parola e l’altra.

 Poi continuò a fatica.

“Non smettere di farti il te quando non ci sarò più… Promettimelo. Perché ti devi volere bene, Gina.” 

“C’è una visita per lei”, le annunciò l’operatrice, distogliendola da quel fragile e intimo ricordo che meritava cura e spazio.

Si sistemò meglio la mascherina sul volto, coprendosi a dovere il naso, come le avevano mostrato le infermiere. Poi si disinfettò per l’ennesima volta le mani  avendo cura di non strofinare troppo la pelle già lisa. 

“Come se avessi stretto le mani tutto il giorno!”, borbottò tra sé.

Una parete di plastica  opaca e piuttosto spessa  era stata montata nell’ingresso da pochi giorni. L’alba del giorno nuovo per gli esuli dagli affetti, per chi tenuto in quarantena da quelli aveva potuto avvertire  dei propri cari  solo che una voce lontana.

Al di là  di quel muro  l’aspettava la nipote. Non la vedeva da mesi, dall’inizio della pandemia.

Il cuore in subbuglio le bloccò la voce ed il passo,  mentre la testa cominciò a ronzare per l’agitazione.

“Infila le mani qui, zia!” le suggerì la ragazza avvicinandosi alle due proboscidi in plastica che si dipartivano da  due  oblò.

 E fu così che si ritrovarono, accartocciate nei loro sentimenti, con il fruscio della parete a cullare i loro pianti ed il loro lungo, soffocante abbraccio che  ricuciva la sofferta separazione.

E allora le sovvenne il suo Piero.

“Ti devi voler bene, ricordatelo, mia cara”, le sussurrò  Gina all’orecchio con la voce rotta dall’emozione.

 

Risveglio di una città

 

Le vie toccate

dal vento

i palazzi e odore di caffè,

i lampioni senza luce,

un signore che si ferma,

un altro seduto

con i suoi pensieri.

 

 

 

Caramaschi Sara

2° Classificata Categoria Racconto Breve Over Concorso Letterario Nazionale Amilcare Solferini 2023

350788614_729701842296592_2689541966991411618_n.jpeg

GUARDA DALL’ALTRA PARTE 

 

E la mamma le diceva d’improvviso: 

“ Teresa guarda dall’altra parte” e lei voltava la faccia altrove fino a quando tutto era finito, 

fino a quando tutto era passato. Lo sentiva dentro quando poteva ricominciare a guardare. 

Il suo volto di bambina posava gli occhi su qualcosa di bello, solitamente un fiore o qualcosa che brillava, a volte era anche sono un riflesso.

C’era sempre qualcosa che colpiva la sua attenzione ma se non c’era, pensava veloce e lo trovava. 

Doveva trovarlo.

Poi ogni suo muscolo era invaso da un’amara tristezza e una rabbia che la nasceva dalla bocca dello stomaco, le faceva quasi venire la nausea perché lei sapeva che non era giusto;  in fondo lei voleva guardare, voleva essere partecipe nelle cose, non trovava corretto girarsi dall’altra parte. 

Aveva imparato con gli anni a voltarsi, sempre, tutte la volte che sua mamma le consigliava di farlo. 

Sarebbe stato per il suo bene. 

Per non vedere delle immagini che l’avrebbero turbata, per non soffrire e lei se n’era fatta una ragione. 

Con il tempo era diventato un suo modo di essere; quando non voleva sentire o vedere qualcosa si voltava dall’altra parte, se ne andava, sbatteva la porta dietro di sé e non ci pensava più, aveva in qualche modo fatto tacere l’altra parte di sé che invece per affrontare la vita, voleva guardare. 

Era successo a lavoro, quando dopo un’accesa discussione con il suo capo, non aveva voluto replicare e aveva semplicemente preso con distacco i suoi oggetti personali;  aveva chiesto con un filo di voce arido di parole un minuto di pazienza e con decisione aveva sgomberato la sua scrivania. 

Se n’era andata . Non per quel giorno, per il resto dei suoi giorni. 

Li non sarebbe potuta restare un minuto di più; il suo lavoro era terminato, lei aveva voltato le spalle alla prepotenza e alla ottusità . 

Era successo con il suo ex-ragazzo, non funzionava da tempo …..lei cercava qualcos’altro ma quel qualcos’altro, che non sapeva bene cos’era, sapeva che Matteo non avrebbe potuto darglielo.

Gli voleva bene, lui la adorava, era sempre presente, non l’aveva mai abbandonata.

Più volte le aveva chiesto di provarci seriamente, di andare a convivere, di costruire insieme una famiglia, senza costrizione alcuna, non c’erano in progetto dei figli se non ne voleva, non c’erano animali a cui badare. 

Loro, solo loro. 

Andavano d’accordo, si capivano, avevano condiviso i loro anni più spensierati, quelli che poi non tornano più. 

In ogni modo lui le faceva sentire la sua presenza con un gesto gentile, un messaggio, un abbraccio, con le parole di un innamorato.

Ma Teresa…Teresa…era come se il suo cuore fosse troppo intento a farsi domande. 

Forse lei aveva paura di scegliere o forse solo non era pronta al cambiamento. 

Lei guardava dall’altra parte. 

 

 

 

 

 

 

 

 

Diceva a se stessa che sarebbe stata pronta più avanti, ne era sicura, lui sarebbe stato l’uomo perfetto per lei; erano diversi ma lei ne era certa, lui non le avrebbe fatto del male, non l’avrebbe delusa, nessuno l’avrebbe mai più amata come Matteo.  Se ci fosse stato un pericolo, l’avrebbe subito difesa, le avrebbe preso la testa dolcemente fra le sue mani e insieme avrebbero guardato da un’altra parte.

Ma in quel momento della vita erano tutti e due incatenati ad un amore che lei non sentiva.

Fino ad allora troppo spesso si era sentita soffocare e se lo ricordava bene; già da piccola aveva rischiato di morire soffocata per aver ingerito una pietra. 

Era in giardino, stava giocando con l’erba e sorrideva al mondo. Sua mamma si era allontanata per un attimo e lei aveva visto qualcosa che brillava, una piccola pietra aveva attirato la sua attenzione  e istintivamente l’aveva messa in bocca ….stava soffocando, respirava a fatica, d’improvviso aveva sentito come una coltellata dritta al petto, sentiva calore sul viso, si era buttata in avanti inconsapevolmente, sbattendo la faccia per terra ed era riuscita a salvarsi, da sola. Non smetteva più di piangere e nessuno era riuscito a capire il perché, nessuno si era accorto di nulla ma quella sensazione e quel ricordo nella sua anima era rimasto indelebile.

Il suo istinto di sopravvivenza l’aveva salvata e riconosceva in lei una grande determinazione 

Ma quell’istinto, quella forza, quel dover combattere  a tutti i costi per salvarsi, l’aveva resa come insensibile. Quando il dolore sarebbe aumentato a tal punto da divenire insopportabile, lei avrebbe reagito bloccando sul nascere ogni emozione perché sapeva di scivolare in un abisso da cui non sarebbe risalita. 

Teresa si commuoveva spesso e sovente ma arrivati ad un certo punto le sue emozioni lasciavano spazio alla sopravvivenza e lei diventava di roccia. Il suo atteggiamento era distaccato come l’ultima volta che aveva parlato con Matteo.  

Quando lasciò  Matteo era una sera come un’altra.

In questo caso la quiete prima della tempesta.

Erano andati a cenare insieme,  lei aveva iniziato un discorso strano, uno dei tanti che Matteo era solito ascoltare.

 Teresa si sentiva in gabbia, come un purosangue dentro ad un recinto e lui era il recinto che la proteggeva. Lei voleva uscire al galoppo verso la prateria senza fine, ogni giorno voleva saltare quel recinto ed essere libera ….da chi? Da cosa? Non se lo sapeva spiegare. 

Non poteva più permettere che questo andasse avanti ancora per troppi anni. 

Lo voleva lasciare, finalmente andare oltre e quella sera, lei aveva aperto il recinto e veloce era scappata via. 

Sotto casa sua, lei l’aveva salutato, era scesa dalla macchina e aveva chiuso la porta dietro di sé.

Un tonfo al cuore insopportabile. 

Matteo l’aveva avvisata, una volta uscita da quella macchina lui non ci sarebbe più stato per lei, avrebbe dovuto eliminare il suo numero di telefono e non chiamarlo più per nessun motivo e sarebbero diventati due volti che si confondono in mezzo alla folla. L’aveva chiamata ancora una volta, lei si era girata,chissà cosa pensava di sentire, l’aveva guardato negli occhi e, senza proferire parola, gli aveva augurato tutto il bene di questo mondo .

 

 

 

 

 

 

 

Matteo le aveva detto che l’amava e che nessun’altro l’avrebbe amata come lui. 

Una volta chiusa la porta di casa, aveva pianto disperatamente e quella fitta al cuore che aveva provato da bambina, di nuovo la soffocava come allora.

E la mamma le diceva d’improvviso: 

“ Teresa guarda dall’altra parte”, era quello che le era sembrato di sentire anche allora quando ormai sua mamma non c’era più da anni. 

A volte capita che nel presente ti fai tante domande ….. e se avessi e se forse e se potessi,  ma ogni scelta ti porta davvero a fare un’altra vita .Non c’è tempo che ti possa dare risposte e non si può guardare il traguardo di strade non percorse. Rimane sempre quel po’ di insoddisfazione e di rammarico per quello che poteva essere.

Poi passarono gli anni e Teresa aveva ancora dovuto spesso girare lo sguardo ma da quella sera con Matteo aveva acquisito una consapevolezza diversa. In cuor suo era cambiato qualcosa .

L’altra parte di sé, quella che un tempo aveva fatto tacere, adesso stava ritornando a galla e non era più disposta a nascondersi, per vivere bisogna affrontare il bello ma soprattutto il brutto della vita e cercare di guardare sempre in avanti, cercando di migliorarsi e se possibile, di essere di aiuto agli altri. A volte ci si illude di volere la libertà, ci si illude di essere abbastanza per se stessi ma ci dimentichiamo di essere davvero tanto fragili e molto soli più di quanto non vogliamo ammettere a noi stessi.

 Aveva avuto modo di viaggiare parecchio; le era capitato di andare a Cape Town in Sud Africa e aveva visto nel centro città un bel giardino con fiori e alberi secolari, un luogo di bellezza assoluta, calma e pace con mamma e figlia ben vestite, che giocavano sdraiate in mezzo all’erba e poco dopo fuori di lì, una mamma e una figlia sedute per terra con vestiti sgualciti e mani sporche che giocavano con le pietre per terra e lei, non aveva voltato lo sguardo mai. Non aveva voltato lo sguardo quando a San Francisco in pieno centro per la prima volta nella sua vita aveva visto un homeless donna sdraiata per terra, era rimasta colpita. Era una donna di mezza età con una maglia rossa e un paio di jeans con la faccia appoggiata all’asfalto e dormiva o forse chissà. Lei si era fermata, voleva chiedere aiuto, non si era voltata dall’altra parte ma aveva potuto toccare con mano la forza dell’indifferenza. Nessuno aveva ascoltato le sue parole di richiesta di aiuto.

Qualche tempo dopo in Spagna, a Barcellona una scena analoga con una decina di homless che dormivano dentro all’ androne della banca, tutti insieme, solidali fra loro quando tutti i passanti si giravano dall’altra parte come se fossero stati solo delle ombre. Tutti presi da quello che è il proprio mondo fatto di routine, dal tempo e da appuntamenti scanditi, di immagini usuali , tutti di corsa a scegliere strade che ci porteranno chissà dove; non c’è abbastanza posto per la comprensione e la condivisione . 

Teresa non era diventata una persona migliore, semplicemente aveva imparato a guardare avanti e nel farlo aveva capito l’importanza di non voltarsi nel caso in cui lei avesse potuto aiutare gli altri.  Il guardare dall’altra parte è indifferenza. E’ una condizione di disinteresse che non ti fa scegliere né una strada né l’altra e ti fa rimanere impassibile di fronte a tutto quello che ti può capitare.

Teresa era diventata libera e aveva imparato, con volontà, a scegliere la sua strada ; la vita è partecipazione, adesso la voce di sua mamma non la sentiva più.  

 

 

 

Debernardi Cinzia

2° Classificata Categoria Racconto Breve Over Concorso Letterario Nazionale Amilcare Solferini 2023

GHITIN

Il suo ormai era un rito. Si sedeva al tavolo di robusto ciliegio, inforcava quei suoi tondi occhiali e assaporava quel latte tiepido e schiumoso delle mucche dell’Amilcare  che Giacomina la governante, che tutti chiamavano Giacota, gli preparava premurosamente ogni mattina. E socchiudendo gli occhi, mentre pian piano le lenti si appannavano, sentiva il profumo della candida bevanda inebriarlo lentamente e portargli alla mente la soave immagine di colei che deliziava i suoi sogni: Ghitin, la figlia di Amilcare il fattore. Ghitin era speciale! Agli occhi del conte i robusti zoccoli di noce indossati dalla giovine fanciulla parevano luccicose scarpette di cristallo; l’acconciatura in due e grosse trecce non aveva nulla da invidiare alla fluenti capigliature ornate di coroncine dorate delle affascinanti principesse; i suoi vestiti lunghi e scuri parevano preziosi abiti di seta dai colori vivaci; persino l’anziano Citot, il segugio da caccia di Amilcare, accanto a Ghitin sembrava un giovane a audace levriero. Camillo si ridestò di colpo: non poteva certo perder tempo dietro a questioni di donzelle! Lui, Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, nobile dei marchesi di Cavour, scapolo ambito, fra gli uomini più potenti e ricchi del regno di Piemonte avrebbe potuto avere tutte, o quasi tutte, le dame del bel mondo ai suoi piedi e, a dir il vero, con alcune di esse aveva intrattenuto rapporti epistolari per lungo tempo, ma non certo per sposarle. Da tempo immemore aveva fatto suo ciò che soleva dire magna Felicin-a, una saggia  vecchina, dalle guance paffute, che curava meticolosamente l’adorata vigna che confinava ad una delle proprietà del conte: “La morosa a l’è lait, la sposa a l’è bur, la fomna a l’è formagg dur”. Ma forse Camillo per Ghtin avrebbe fatto uno strappo alla ferrea regola del celibato. Per aver di che parlare con Amilcare si era addirittura  fatto una cultura sulle vacche di razza piemontese: ne aveva imparato a menadito attitudini, morfologia e fisiologia. Avrebbe potuto scrivere un trattato zootecnico. Tutto per aver la scusa per andare dal fattore, in modo che Ghitin, vedendolo, timidamente ( e maliziosamente) si  sarebbe avvicinata al padre e poi avrebbe  cominciato a guardare il conte spalancando quegli occhi dalle iridi così scure che ricordavano le profonde acque del canale di Caluso, così scure che…che…che Camillo, ogni volta, perdeva persino il filo del discorso! Ma quella mattina di aprile inoltrato era una mattina diversa dalle altre, una mattina importante. Il re sarebbe andato al castello di Mazzè per guidare l’offensiva contro gli austriaci. E se tutto fosse andato esattamente come doveva andare l’Obbiettivo sarebbe stato presto raggiunto. E allora si alzò dalla comoda sedia, si abbottonò il panciotto e, con un ultimo sospiro dedicato a Ghitin, si avviò ai suoi affari di Stato.

 

Come sia finita la faccenda fra piemontesi e austriaci lo si può trovar in qualsivoglia libro di storia, ma nessuno hai mai scritto cosa ne fu dell’Amore fra Camillo e Ghitin. E certo non lo troverete nemmeno qui.

L’Amore, quello vero, quello con la maiuscola, quello che fa martellare il cuore, quello che regala sospiri, quello paradisiaco non si scrive né su carta né su pergamena ma si assapora, si respira e si custodisce. E Camillo e Ghitin han saputo custodire gelosamente il loro tesoro più prezioso.

 

Covenna Fulvio 

3° Classificata Categoria Racconto Breve Over Concorso Letterario Nazionale Amilcare Solferini 2023

LA CAPPELLA

 

Alfio non ci poteva credere, era veramente arrabbiato.

«Ma come – pensava – io mi faccio un mazzo così per organizzare, per preparare tutto a puntino, tutto in suo onore, e Lui neanche si sforza di farci avere una giornata di sole? Non si fa così, avrà anche altro cui pensare ma un occhio di riguardo per noi poteva avercelo». 

Mentre alzava lo sguardo al cielo, la sua espressione era di rimprovero.

Era stanco, Alfio. Da un mese si dannava l’anima per quella festività che, per lui e per il paese, era la giornata più importante dell’anno. Non solo una giornata, tutta una intera settimana, quanto duravano le celebrazioni, con tanto di rosari, novene e messe. Poi, nel gran finale, la domenica, dalla cappelletta di fianco a casa sua sarebbe partita la processione col Cristo in croce che avrebbe percorso tutto il paese fino alla chiesa del Redentore. Erano solo due chilometri ma ogni anno sembravano più lunghi. Più che di fianco, quella piccola costruzione sacra si trovava praticamente all’interno della proprietà di Alfio, in un angolo del giardino che dava sulla strada principale. Ma mica l’aveva costruita lui. Se l’era ritrovata, quando, vent’anni prima, aveva comprato quel rudere che poi a forza di sudore e sangue aveva trasformato in una bella villetta con un grande giardino. E anche quella specie di tempietto, all’epoca, era ricoperto di erbacce, quasi nessuno in paese si ricordava della sua esistenza. Lui l’aveva ripulito, rintonacato, aveva rifatto il tetto e rimesso in ordine l’immagine della Madonna che poi qualcuno aveva attribuito a un pittore del Rinascimento. Aveva arricchito gli interni con addobbi e decori liturgici, ma soprattutto con l’aggiunta, a fianco dell’affresco della Vergine, di una scultura lignea del Cristo in croce che aveva fatto costruire da un bravo artigiano del paese. Anche se una difficoltosa verifica catastale appurò che quella costruzione apparteneva al Comune, Alfio la considerava come una sua proprietà. Che soddisfazione provava quando vedeva la gente che, a piedi o in auto, passando davanti a quella postazione terrena del regno celeste, si segnava con devozione. Con un piccolo peccato di vanità, si considerava un po’ il destinatario di quel saluto. 

La processione si teneva ormai ininterrottamente da una quindicina di anni, da dopo il terremoto, per rendere grazie al Cristo di avere risparmiato il paese da danni gravi e vittime. Non si sa perché avessero attribuito proprio a quel Cristo il merito di quel miracolo, ma sembra che già cinquant’anni prima fosse successa la stessa cosa. Allora il Cristo non c’era ancora, ma alcuni giorni dopo il rovinoso sisma che aveva sconvolto tutta la regione tranne il paese, nel tempietto, alcuni giurarono di aver visto la Madonna piangere e così, per qualche tempo, quella raffigurazione fu venerata come “Madre Regina del terremoto”; poi però, nel corso degli anni, quel culto cadde nel dimenticatoio e con esso quel tabernacolo che lo conteneva. 

Adesso pioveva, e lo avrebbe fatto per tutta la settimana, rovinando la festa e non solo. Spettava a lui portare in spalla quella croce, non c’era dubbio, si era guadagnato quel privilegio per la sua nota devozione e per essere stato l’artefice del recupero di quel cimelio religioso. Ma non era più un giovincello e sotto l’acqua correva il rischio di ammalarsi, come era successo due anni prima. Per tanti anni mai una nuvola, sempre un tempo perfetto, neanche si doveva chiedere, da lassù ci pensavano loro. Da tre anni, invece, tutto era cambiato. Come arrivava il periodo della festa, immancabilmente, il cielo si scuriva e, per tutta la settimana, pioggia a catinelle. Già, da tre anni, da quando era venuto ad abitare quel senzadio che aveva comprato la casa di fianco alla sua, con cui condivideva proprio il confine di quella costruzione sacra. Si era capito subito che era uno straniero. Il classico cittadino che, andato in pensione, pensa di mettere su casa in campagna credendo di trovare chissà quale Eldorado. Si era lamentato che i cani abbaiavano, che dalla stalla del contadino di qualche casa più in là partivano sciami di mosche e zanzare, che l’odore di stallatico era insopportabile. Alfio aspettava solo il momento giusto per dirglielo in faccia: “Ma che cosa pretendi? Vuoi vivere in campagna? E allora ti devi prendere anche i suoi sottoprodotti”; e forse anche cose peggiori gli avrebbe detto. 

Appena arrivato, si era fatto conoscere, il signor Sergio Artusi. Una cosa incredibile, era andato a chiedere ad Alfio se fosse stato d’accordo a demolire quella struttura che stava in mezzo, tra le loro proprietà. Alfio, all’inizio, non capì. Quale struttura? Non c’era nessuna struttura. Poi realizzò. Intendeva la cappella. Voleva abbatterla! Cose dell’altro mondo. D’altronde in chiesa non si era mai fatto vedere. Quando si tenevano le manifestazioni davanti alla cappella, lui se ne stava rintanato in casa, mentre tutta la gente del paese pregava e si raccoglieva con devozione. E poi lo faceva apposta. Lasciava che tutte le erbacce del suo giardino si arrampicassero sul muro della cappella che dava sulla sua parte. Tutto il resto del giardino era perfetto, solo quella zona era selvaggia. Il comune aveva perfino chiesto se poteva mandare i cantonieri a mettere a posto e lui aveva negato l’accesso. E poi con quella moglie con la puzza sotto il naso, sempre così elegante, come se invece che al mercato andasse a un ricevimento; e che fatica faceva a salutare. La figlia, poi, girava con delle minigonne vergognose, in paese non si erano mai viste così corte. Aveva costruito un patio in giardino, proprio vicino alla cappella, e lì, ogni settimana d’estate, lui e i suoi amici si mettevano a gozzovigliare, senza alcun rispetto per la sacralità di quel simulacro.

Ma quello che Alfio proprio non capiva era perché qualcuno da lassù gliela dava vinta. Quello godeva del cattivo tempo e si faceva quattro risate a vedere tutta la gente assembrata con l’ombrello aperto, in difficoltà a farsi il segno della croce e congiungere le mani se doveva badare a ripararsi dall’acqua che scendeva dal cielo. Già il nuovo prete non ci metteva tutto quell’entusiasmo. Aveva detto che se continuava a piovere, la funzione l’avrebbe fatta in chiesa. La gente si era quasi scandalizzata. Se ci fosse stato ancora Don Paolo, una cosa così non sarebbe mai successa. E sì, quel pretino non era proprio un esempio di virtù, giravano già tante voci in paese. Ma ancora grazie che ne avessero mandato uno; altrove le parrocchie erano state raggruppate per mancanza di vocazioni. 

Arrivato il giorno della processione, Alfio, come d’abitudine, si era alzato presto. Inutilmente la moglie lo aveva invitato a restare a letto, ricordandogli che avrebbe avuto una giornata faticosa. Aveva dato un’occhiata alla casa, che almeno dall’esterno tutto fosse in ordine, la gente non doveva criticare. Ogni anno ridipingeva la staccionata, tagliava le siepi e le punte delle piante del giardino. Controllò che le luminarie pendenti che andavano da una casa all’altra trasformando la strada in un grande porticato luccicante, fossero tutte accese. Poi iniziò il rito della vestizione. A seconda del tempo, avrebbe indossato abiti leggeri o pesanti da mettere sotto la tunica. Scelse quelli pesanti, era settembre ma il maestrale poteva tirare secco; al posto dei sandali questa volta avrebbe calzato delle scarpe da ginnastica, con tutta quella pioggia...

Quella tunica era logora, a forza di portare quel peso, sulle spalle c’erano i segni della tela ampiamente sdrucita. Aveva chiesto al comune di procurargliene una nuova, ma quella giunta di sinistra che si era installata di recente badava solo a risparmiare o perlomeno a ostentarne le intenzioni. Volevano fare i virtuosi a sue spese, quei rossi mangiapreti.

Alle nove in punto arrivò la banda, la gente era già tutta radunata davanti alla cappella. Il prete, con a fianco due chierichetti, iniziava ad agitare l’aspersorio quando lui uscì di casa accolto da un mormorio di benvenuto. Con incedere solenne si aprì un varco tra i fedeli, bloccando con un gesto ieratico l’intenzione di alcuni di loro di fotografarlo con i loro telefonini. Le beghine aprirono la porta della cappella e i due cantonieri entrarono a prelevare la croce del Cristo. Don Gildo pronunciò velocemente la formula della benedizione e poi quella santa reliquia fu caricata sulle spalle di Alfio. Gli sembrava che quel fardello fosse sempre più pesante, ogni anno di più, e poi la pioggia minacciava di rendere l’impresa ancor più faticosa. S’incamminò lungo la strada chiusa al traffico per l’occasione, seguito dal folto gruppo dei fedeli. La parte più difficile era quella iniziale, sia perché doveva scaldare i muscoli ma soprattutto perché doveva passare davanti alla casa del vicino senzadio. Sicuramente lui, il miscredente, era dietro le tende che se la rideva e si prendeva gioco del suo sforzo. 

La gente rispondeva alle sollecitazioni del prete a salmodiare le litanie della vergine. Il clima era intriso di una profonda sacralità. Alfio fremeva all’idea di come tutto quell’ardore fideistico fosse sfidato dalla diabolica laicità di quella casa. Si augurava che, passandoci davanti, le forze divine scatenassero qualche fenomeno biblico, che gli ottoni della banda emulassero le trombe di Gerico o l’angelo di Gomorra intervenisse di nuovo. Avrebbe volentieri provocato lui qualche strage catartica, magari lanciandosi con la sua croce in spalla contro il portone, come un ariete che scardina le porte della città infedele. 

«Ora pro nobis».

Il gruppo dei fedeli procedeva compatto e pronta e squillante suonava la risposta alle giaculatorie del prete. Fumi di incenso si condensavano in dense brume odorose.

Un primo coro si alzò timidamente dal gruppo, intonando un canto in onore della Madonna.

Alfio si arrabbiò.

«Troppo piano – esclamò con stizza – ci vuole più convinzione».

E sì che li aveva avvisati che davanti a quella casa si doveva transitare con grande clamore; preghiere e invocazioni dovevano alzarsi stentoree di fronte a quello scrigno di traviamento.

Possibile che quel gregge di pecoroni non percepisse l’abisso del peccato che allignava in quel rifugio d’indemoniati? Non si rendevano conto che era necessario combattere contro le forze di Satana che, in risposta  all’inno al Signore, lì, a due passi da loro, rendevano gloria al regno del Male? 

Era scoraggiato. Lui ce la metteva tutta per ammonire ed esortare i suoi compaesani a una maggiore attenzione verso quei pericoli. Era stanco di spiegare che la maligna influenza di quel covo rischiava di neutralizzare il potere che il Divino esercitava nel proteggere la salvezza materiale e spirituale del paese.

Già lassù, in alto, c’era poca attenzione a tutto quello che si stava allestendo in loro onore. Pioggia, pioggia ed ancora pioggia. Neanche i ceri si era riusciti ad accendere e una processione senza ceri è come un matrimonio senza fiori, un banchetto senza il vino. Certo che poi certa gente incominciava a dubitare. 

Alfio non resistette e, contrariamente ai suoi propositi, diede un’occhiata di striscio a quella casa. Chissà cosa stava succedendo, chissà quali baccanali stava organizzando quell’eretico per ingraziarsi i suoi dei. No, non si doveva permettere un simile affronto.

La processione s’ingrossava man mano che procedeva verso la sua meta. Le voci dei credenti si facevano sempre più perentorie nell’implorazione a Dio. Il prete, isolato a capo del corteo, era impregnato di quella luminosità e di quella gravità di chi conduce una moltitudine di anime verso la gloria del Signore. I tamburi della banda scandivano le orazioni con rimbombi sempre più incalzanti. Un alone di convinto misticismo avvolgeva quel gruppo esaltato dalla fede.

Alfio, travolto da quell’eccitazione collettiva, sentiva meno la fatica. Il manipolo di signore che rappresentava le pie donne andava periodicamente a incitarlo nello sforzo e a rifocillarlo. Ma il suo pensiero era fisso su un’idea sola: chiedere al Signore lumi su come sgominare quell’isola di trasgressione. Implorava che gli scendesse qualche epifania, qualche segnale che gli indicasse la strada per avversare l’infedele. Il sudore gli imperlava la fronte; delle gocce gli cadevano sugli occhi deformando, come una lente sbagliata, la percezione delle cose intorno. Il respiro affannoso dava il ritmo ai suoi passi e ai suoi pensieri concentrati sulla ricerca di qualcosa, di un’indicazione, di un avvertimento.

Poi capì, un improvviso bagliore all’orizzonte gli fornì la rivelazione. La sua espressione si rasserenò e i segni della fatica scomparvero dal suo volto.

La processione arrivò trionfalmente alla chiesa già addobbata con piante e fiori multicolori.

La consegna del crocifisso collocato dietro l’altare maggiore fu accompagnata da un fragoroso applauso. Alfio era fieramente convinto che una quota di quell’ovazione fosse destinata a lui.

Seguì la messa solenne e poi il gruppo di fedeli si distribuì sul sagrato della chiesa preparato per un rinfresco di specialità contadine. Il senso di liberazione di chi ha esaurito il compito dedicato alle esigenze dello spirito accomunò quella gente in una celebrazione che assunse rapidamente i toni di festa pagana.

Anche Alfio partecipò con entusiasmo, in fin dei conti era lui il festeggiato, protagonista quasi quanto il prezioso carico che si era portato sulle spalle. Ma il suo pensiero continuava a restare fisso sul compito che il segno divino gli aveva affidato.

Rifacendo la stessa strada, al ritorno, si fermò qualche attimo davanti alla casa incriminata, come in segno di sfida. Vide la tenda scostarsi e un’ombra sparire dietro il vetro. 

«Ridete, ridete pure, per voi è arrivato il momento della resa dei conti».

 

Le sirene dei vigili del fuoco lacerarono il silenzio delle prime ore del mattino. Lunghe lingue di fuoco si alzavano dall’interno della casa ormai avvolta dalle fiamme. Le maniche piene d’acqua si allungavano come serpenti scossi da singulti sincopati. 

Quando il fuoco fu domato, della casa non restavano che poche macerie annerite. Alfio, che aveva osservato la scena con distacco, si avvicinò al capo dei militari.

«Appena ho visto il riflesso delle fiamme, ho dato l’allarme ma era troppo tardi, per fortuna l’incendio è scoppiato sul lato della casa opposto alla mia proprietà. Non si sa niente delle persone all’interno?»

«Per adesso è prematuro ma credo che per quei tre poveretti non ci sia stato scampo; ci ha avvertiti in tempo, altrimenti anche la sua casa sarebbe andata in fumo» rispose il vigile dal volto ancora annerito dalle ceneri che impregnavano l’aria.

Alfio rientrò in casa nascondendo alla moglie un sorriso di soddisfazione. Rivolgendo lo sguardo al cielo disse tra sé:

«Questa volta, da lassù, avete fatto le cose per bene».

In paese, la notizia fece una grande sensazione. Nella storia recente, mai una tragedia di quella portata si era abbattuta nella zona. Tutti erano increduli di come fosse potuto succedere. La commozione si mescolava allo stupore per la miracolosa integrità della cappella tenuta indenne da ogni danno. Le investigazioni condotte frettolosamente conclusero che si era trattato di un fulmine, d’altronde quella notte il paese era stato flagellato da una pioggia torrenziale. L’enigma delle latte di benzina trovate sullo spiazzo antistante fu archiviato con una spiegazione convincente: servivano da riserva di carburante per la motozappa che il proprietario adoperava per coltivare l’orto.

Alfio fu molto solerte nel gestire il trambusto che seguì.

Organizzò il funerale con tanto di orazione funebre molto commovente. Offrì la sua casa per ospitare i parenti delle vittime che erano giunti dal capoluogo. Fu tra i più attivi a fornire informazioni ai giornalisti che preparavano i loro articoli su quella tragedia di provincia, non facendo mancare un accenno di commozione per la disgrazia che si era abbattuta su una famiglia perbene.

Il suo animo aveva finalmente trovato pace. Adesso quella cappelletta non era più minacciata da infedeli eretici che rappresentavano le forze del male. Raccogliendosi in preghiera davanti alla scultura del Crocifisso ormai riposta nel suo alloggiamento, gli parve di cogliere un segno di approvazione giungere dall’espressione sofferente del Cristo. Si ripromise di far fare al più presto quegli interventi di manutenzione di cui ormai il piccolo edificio necessitava e di arricchirlo con nuovi paramenti. 

Solo qualche giorno dopo, di primo mattino, Alfio si accorse che un gruppo di muratori stava tirando su un’impalcatura che si appoggiava sulla facciata della cappella.

Si avvicinò incuriosito e chiese spiegazioni ai lavoratori che però lo invitarono a rivolgersi in Comune.

«Noi sappiamo solo che dobbiamo apporre una scritta sulla parete» gli disse uno degli addetti.

«Quale scritta?» chiese Alfio preoccupato.

«La popolazione del paese, a perenne ricordo della famiglia Artusi» disse quello, leggendo il foglietto che teneva in mano.

Alfio si sentì come trafitto da uno sciame di vespe.

«Fermi, vi ordino di sospendere ogni lavoro» intimò con tono categorico.

Poi, vista l’inutilità delle sue richieste, prese la bicicletta e si avviò verso la piazza del paese dove si ergeva il Municipio.

Entrò come una furia e si avventò senza bussare all’interno dell’ufficio del sindaco.

«Chi ha dato l’autorizzazione ad apporre quella scritta sacrilega alla cappella ?» inveì senza nemmeno salutare.

«Si è riunita la Giunta che ha deliberato all’unanimità, non c’è nulla di sacrilego» rispose il sindaco dopo un attimo di sconcerto.

«Ma è noto a tutti che quella famiglia, quegli Artusi, erano degli atei mangiapreti» replicò Alfio ancor più agitato.

«A noi non risulta, proprio prima di quel terribile incidente avevano fatto una ricca donazione proprio per il restauro della cappella».

«Ma se non avevano mai partecipato a nessuna processione e mai messo piede in chiesa».

«Certo, tutta la famiglia era allergica all’incenso e si erano più volte scusati per la loro assenza». 

Alfio barcollò.

«La vendetta del diavolo; è stato lui, il demonio, solo il demonio può inscenare questi inganni e trasfigurare un empio in benefattore, un profanatore in un caritatevole finanziatore. Siamo stati tutti imbrogliati dal maligno» bofonchiò ormai allo stremo.

Poi si riprese e, aiutato dal personale del Comune, riuscì a raggiungere l’uscita.

Al ritorno, aveva le gambe così molli che non riusciva a spingere i pedali della bicicletta. 

Era frastornato e, nonostante gli sforzi, non riusciva ad alzare lo sguardo al cielo, qualcosa glielo impediva. 

Giunto a casa evitò accuratamente di soffermarsi, come era solito fare, davanti alla cappelletta. Poi, rivolto alla moglie che lo aspettava preoccupata, disse avvilito: 

«Ma lassù c’è veramente qualcuno?»

 

 

 

www.amilcaresolferini.com
Create Website with flazio.com | Free and Easy Website Builder