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Premiati

6° Concorso Letterario Nazionale Amilcare Solferini 2023

Premiati

2° Concorso Lingua Piemontese

Gipo Farassino 2023

Concorso Letterario Amilcare Solferini 
www.amilcaresolferini.com

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Corrado Deri 

1° Classificato Categoria Racconto Breve

 Concorso Letterario Nazionale Amilcare Solferini 2024

 

Titolo

 

Storia di una Storia

 

 

 

 

Elisa Labanca

2° Classificata Categoria Racconto Breve Over Concorso Letterario Nazionale Amilcare Solferini 2024

 

Titolo 

 

Il cancan della masca

 

 

 

 

 

Aquini Maurizio 

3° Classificato Categoria Racconto Breve Over Concorso Letterario Nazionale Amilcare Solferini 2024

 

titolo

 

Senza Mani

 

Covenna Fulvio 

3° Classificata Categoria Racconto Breve Over Concorso Letterario Nazionale Amilcare Solferini 2023

LA CAPPELLA

 

Alfio non ci poteva credere, era veramente arrabbiato.

«Ma come – pensava – io mi faccio un mazzo così per organizzare, per preparare tutto a puntino, tutto in suo onore, e Lui neanche si sforza di farci avere una giornata di sole? Non si fa così, avrà anche altro cui pensare ma un occhio di riguardo per noi poteva avercelo». 

Mentre alzava lo sguardo al cielo, la sua espressione era di rimprovero.

Era stanco, Alfio. Da un mese si dannava l’anima per quella festività che, per lui e per il paese, era la giornata più importante dell’anno. Non solo una giornata, tutta una intera settimana, quanto duravano le celebrazioni, con tanto di rosari, novene e messe. Poi, nel gran finale, la domenica, dalla cappelletta di fianco a casa sua sarebbe partita la processione col Cristo in croce che avrebbe percorso tutto il paese fino alla chiesa del Redentore. Erano solo due chilometri ma ogni anno sembravano più lunghi. Più che di fianco, quella piccola costruzione sacra si trovava praticamente all’interno della proprietà di Alfio, in un angolo del giardino che dava sulla strada principale. Ma mica l’aveva costruita lui. Se l’era ritrovata, quando, vent’anni prima, aveva comprato quel rudere che poi a forza di sudore e sangue aveva trasformato in una bella villetta con un grande giardino. E anche quella specie di tempietto, all’epoca, era ricoperto di erbacce, quasi nessuno in paese si ricordava della sua esistenza. Lui l’aveva ripulito, rintonacato, aveva rifatto il tetto e rimesso in ordine l’immagine della Madonna che poi qualcuno aveva attribuito a un pittore del Rinascimento. Aveva arricchito gli interni con addobbi e decori liturgici, ma soprattutto con l’aggiunta, a fianco dell’affresco della Vergine, di una scultura lignea del Cristo in croce che aveva fatto costruire da un bravo artigiano del paese. Anche se una difficoltosa verifica catastale appurò che quella costruzione apparteneva al Comune, Alfio la considerava come una sua proprietà. Che soddisfazione provava quando vedeva la gente che, a piedi o in auto, passando davanti a quella postazione terrena del regno celeste, si segnava con devozione. Con un piccolo peccato di vanità, si considerava un po’ il destinatario di quel saluto. 

La processione si teneva ormai ininterrottamente da una quindicina di anni, da dopo il terremoto, per rendere grazie al Cristo di avere risparmiato il paese da danni gravi e vittime. Non si sa perché avessero attribuito proprio a quel Cristo il merito di quel miracolo, ma sembra che già cinquant’anni prima fosse successa la stessa cosa. Allora il Cristo non c’era ancora, ma alcuni giorni dopo il rovinoso sisma che aveva sconvolto tutta la regione tranne il paese, nel tempietto, alcuni giurarono di aver visto la Madonna piangere e così, per qualche tempo, quella raffigurazione fu venerata come “Madre Regina del terremoto”; poi però, nel corso degli anni, quel culto cadde nel dimenticatoio e con esso quel tabernacolo che lo conteneva. 

Adesso pioveva, e lo avrebbe fatto per tutta la settimana, rovinando la festa e non solo. Spettava a lui portare in spalla quella croce, non c’era dubbio, si era guadagnato quel privilegio per la sua nota devozione e per essere stato l’artefice del recupero di quel cimelio religioso. Ma non era più un giovincello e sotto l’acqua correva il rischio di ammalarsi, come era successo due anni prima. Per tanti anni mai una nuvola, sempre un tempo perfetto, neanche si doveva chiedere, da lassù ci pensavano loro. Da tre anni, invece, tutto era cambiato. Come arrivava il periodo della festa, immancabilmente, il cielo si scuriva e, per tutta la settimana, pioggia a catinelle. Già, da tre anni, da quando era venuto ad abitare quel senzadio che aveva comprato la casa di fianco alla sua, con cui condivideva proprio il confine di quella costruzione sacra. Si era capito subito che era uno straniero. Il classico cittadino che, andato in pensione, pensa di mettere su casa in campagna credendo di trovare chissà quale Eldorado. Si era lamentato che i cani abbaiavano, che dalla stalla del contadino di qualche casa più in là partivano sciami di mosche e zanzare, che l’odore di stallatico era insopportabile. Alfio aspettava solo il momento giusto per dirglielo in faccia: “Ma che cosa pretendi? Vuoi vivere in campagna? E allora ti devi prendere anche i suoi sottoprodotti”; e forse anche cose peggiori gli avrebbe detto. 

Appena arrivato, si era fatto conoscere, il signor Sergio Artusi. Una cosa incredibile, era andato a chiedere ad Alfio se fosse stato d’accordo a demolire quella struttura che stava in mezzo, tra le loro proprietà. Alfio, all’inizio, non capì. Quale struttura? Non c’era nessuna struttura. Poi realizzò. Intendeva la cappella. Voleva abbatterla! Cose dell’altro mondo. D’altronde in chiesa non si era mai fatto vedere. Quando si tenevano le manifestazioni davanti alla cappella, lui se ne stava rintanato in casa, mentre tutta la gente del paese pregava e si raccoglieva con devozione. E poi lo faceva apposta. Lasciava che tutte le erbacce del suo giardino si arrampicassero sul muro della cappella che dava sulla sua parte. Tutto il resto del giardino era perfetto, solo quella zona era selvaggia. Il comune aveva perfino chiesto se poteva mandare i cantonieri a mettere a posto e lui aveva negato l’accesso. E poi con quella moglie con la puzza sotto il naso, sempre così elegante, come se invece che al mercato andasse a un ricevimento; e che fatica faceva a salutare. La figlia, poi, girava con delle minigonne vergognose, in paese non si erano mai viste così corte. Aveva costruito un patio in giardino, proprio vicino alla cappella, e lì, ogni settimana d’estate, lui e i suoi amici si mettevano a gozzovigliare, senza alcun rispetto per la sacralità di quel simulacro.

Ma quello che Alfio proprio non capiva era perché qualcuno da lassù gliela dava vinta. Quello godeva del cattivo tempo e si faceva quattro risate a vedere tutta la gente assembrata con l’ombrello aperto, in difficoltà a farsi il segno della croce e congiungere le mani se doveva badare a ripararsi dall’acqua che scendeva dal cielo. Già il nuovo prete non ci metteva tutto quell’entusiasmo. Aveva detto che se continuava a piovere, la funzione l’avrebbe fatta in chiesa. La gente si era quasi scandalizzata. Se ci fosse stato ancora Don Paolo, una cosa così non sarebbe mai successa. E sì, quel pretino non era proprio un esempio di virtù, giravano già tante voci in paese. Ma ancora grazie che ne avessero mandato uno; altrove le parrocchie erano state raggruppate per mancanza di vocazioni. 

Arrivato il giorno della processione, Alfio, come d’abitudine, si era alzato presto. Inutilmente la moglie lo aveva invitato a restare a letto, ricordandogli che avrebbe avuto una giornata faticosa. Aveva dato un’occhiata alla casa, che almeno dall’esterno tutto fosse in ordine, la gente non doveva criticare. Ogni anno ridipingeva la staccionata, tagliava le siepi e le punte delle piante del giardino. Controllò che le luminarie pendenti che andavano da una casa all’altra trasformando la strada in un grande porticato luccicante, fossero tutte accese. Poi iniziò il rito della vestizione. A seconda del tempo, avrebbe indossato abiti leggeri o pesanti da mettere sotto la tunica. Scelse quelli pesanti, era settembre ma il maestrale poteva tirare secco; al posto dei sandali questa volta avrebbe calzato delle scarpe da ginnastica, con tutta quella pioggia...

Quella tunica era logora, a forza di portare quel peso, sulle spalle c’erano i segni della tela ampiamente sdrucita. Aveva chiesto al comune di procurargliene una nuova, ma quella giunta di sinistra che si era installata di recente badava solo a risparmiare o perlomeno a ostentarne le intenzioni. Volevano fare i virtuosi a sue spese, quei rossi mangiapreti.

Alle nove in punto arrivò la banda, la gente era già tutta radunata davanti alla cappella. Il prete, con a fianco due chierichetti, iniziava ad agitare l’aspersorio quando lui uscì di casa accolto da un mormorio di benvenuto. Con incedere solenne si aprì un varco tra i fedeli, bloccando con un gesto ieratico l’intenzione di alcuni di loro di fotografarlo con i loro telefonini. Le beghine aprirono la porta della cappella e i due cantonieri entrarono a prelevare la croce del Cristo. Don Gildo pronunciò velocemente la formula della benedizione e poi quella santa reliquia fu caricata sulle spalle di Alfio. Gli sembrava che quel fardello fosse sempre più pesante, ogni anno di più, e poi la pioggia minacciava di rendere l’impresa ancor più faticosa. S’incamminò lungo la strada chiusa al traffico per l’occasione, seguito dal folto gruppo dei fedeli. La parte più difficile era quella iniziale, sia perché doveva scaldare i muscoli ma soprattutto perché doveva passare davanti alla casa del vicino senzadio. Sicuramente lui, il miscredente, era dietro le tende che se la rideva e si prendeva gioco del suo sforzo. 

La gente rispondeva alle sollecitazioni del prete a salmodiare le litanie della vergine. Il clima era intriso di una profonda sacralità. Alfio fremeva all’idea di come tutto quell’ardore fideistico fosse sfidato dalla diabolica laicità di quella casa. Si augurava che, passandoci davanti, le forze divine scatenassero qualche fenomeno biblico, che gli ottoni della banda emulassero le trombe di Gerico o l’angelo di Gomorra intervenisse di nuovo. Avrebbe volentieri provocato lui qualche strage catartica, magari lanciandosi con la sua croce in spalla contro il portone, come un ariete che scardina le porte della città infedele. 

«Ora pro nobis».

Il gruppo dei fedeli procedeva compatto e pronta e squillante suonava la risposta alle giaculatorie del prete. Fumi di incenso si condensavano in dense brume odorose.

Un primo coro si alzò timidamente dal gruppo, intonando un canto in onore della Madonna.

Alfio si arrabbiò.

«Troppo piano – esclamò con stizza – ci vuole più convinzione».

E sì che li aveva avvisati che davanti a quella casa si doveva transitare con grande clamore; preghiere e invocazioni dovevano alzarsi stentoree di fronte a quello scrigno di traviamento.

Possibile che quel gregge di pecoroni non percepisse l’abisso del peccato che allignava in quel rifugio d’indemoniati? Non si rendevano conto che era necessario combattere contro le forze di Satana che, in risposta  all’inno al Signore, lì, a due passi da loro, rendevano gloria al regno del Male? 

Era scoraggiato. Lui ce la metteva tutta per ammonire ed esortare i suoi compaesani a una maggiore attenzione verso quei pericoli. Era stanco di spiegare che la maligna influenza di quel covo rischiava di neutralizzare il potere che il Divino esercitava nel proteggere la salvezza materiale e spirituale del paese.

Già lassù, in alto, c’era poca attenzione a tutto quello che si stava allestendo in loro onore. Pioggia, pioggia ed ancora pioggia. Neanche i ceri si era riusciti ad accendere e una processione senza ceri è come un matrimonio senza fiori, un banchetto senza il vino. Certo che poi certa gente incominciava a dubitare. 

Alfio non resistette e, contrariamente ai suoi propositi, diede un’occhiata di striscio a quella casa. Chissà cosa stava succedendo, chissà quali baccanali stava organizzando quell’eretico per ingraziarsi i suoi dei. No, non si doveva permettere un simile affronto.

La processione s’ingrossava man mano che procedeva verso la sua meta. Le voci dei credenti si facevano sempre più perentorie nell’implorazione a Dio. Il prete, isolato a capo del corteo, era impregnato di quella luminosità e di quella gravità di chi conduce una moltitudine di anime verso la gloria del Signore. I tamburi della banda scandivano le orazioni con rimbombi sempre più incalzanti. Un alone di convinto misticismo avvolgeva quel gruppo esaltato dalla fede.

Alfio, travolto da quell’eccitazione collettiva, sentiva meno la fatica. Il manipolo di signore che rappresentava le pie donne andava periodicamente a incitarlo nello sforzo e a rifocillarlo. Ma il suo pensiero era fisso su un’idea sola: chiedere al Signore lumi su come sgominare quell’isola di trasgressione. Implorava che gli scendesse qualche epifania, qualche segnale che gli indicasse la strada per avversare l’infedele. Il sudore gli imperlava la fronte; delle gocce gli cadevano sugli occhi deformando, come una lente sbagliata, la percezione delle cose intorno. Il respiro affannoso dava il ritmo ai suoi passi e ai suoi pensieri concentrati sulla ricerca di qualcosa, di un’indicazione, di un avvertimento.

Poi capì, un improvviso bagliore all’orizzonte gli fornì la rivelazione. La sua espressione si rasserenò e i segni della fatica scomparvero dal suo volto.

La processione arrivò trionfalmente alla chiesa già addobbata con piante e fiori multicolori.

La consegna del crocifisso collocato dietro l’altare maggiore fu accompagnata da un fragoroso applauso. Alfio era fieramente convinto che una quota di quell’ovazione fosse destinata a lui.

Seguì la messa solenne e poi il gruppo di fedeli si distribuì sul sagrato della chiesa preparato per un rinfresco di specialità contadine. Il senso di liberazione di chi ha esaurito il compito dedicato alle esigenze dello spirito accomunò quella gente in una celebrazione che assunse rapidamente i toni di festa pagana.

Anche Alfio partecipò con entusiasmo, in fin dei conti era lui il festeggiato, protagonista quasi quanto il prezioso carico che si era portato sulle spalle. Ma il suo pensiero continuava a restare fisso sul compito che il segno divino gli aveva affidato.

Rifacendo la stessa strada, al ritorno, si fermò qualche attimo davanti alla casa incriminata, come in segno di sfida. Vide la tenda scostarsi e un’ombra sparire dietro il vetro. 

«Ridete, ridete pure, per voi è arrivato il momento della resa dei conti».

 

Le sirene dei vigili del fuoco lacerarono il silenzio delle prime ore del mattino. Lunghe lingue di fuoco si alzavano dall’interno della casa ormai avvolta dalle fiamme. Le maniche piene d’acqua si allungavano come serpenti scossi da singulti sincopati. 

Quando il fuoco fu domato, della casa non restavano che poche macerie annerite. Alfio, che aveva osservato la scena con distacco, si avvicinò al capo dei militari.

«Appena ho visto il riflesso delle fiamme, ho dato l’allarme ma era troppo tardi, per fortuna l’incendio è scoppiato sul lato della casa opposto alla mia proprietà. Non si sa niente delle persone all’interno?»

«Per adesso è prematuro ma credo che per quei tre poveretti non ci sia stato scampo; ci ha avvertiti in tempo, altrimenti anche la sua casa sarebbe andata in fumo» rispose il vigile dal volto ancora annerito dalle ceneri che impregnavano l’aria.

Alfio rientrò in casa nascondendo alla moglie un sorriso di soddisfazione. Rivolgendo lo sguardo al cielo disse tra sé:

«Questa volta, da lassù, avete fatto le cose per bene».

In paese, la notizia fece una grande sensazione. Nella storia recente, mai una tragedia di quella portata si era abbattuta nella zona. Tutti erano increduli di come fosse potuto succedere. La commozione si mescolava allo stupore per la miracolosa integrità della cappella tenuta indenne da ogni danno. Le investigazioni condotte frettolosamente conclusero che si era trattato di un fulmine, d’altronde quella notte il paese era stato flagellato da una pioggia torrenziale. L’enigma delle latte di benzina trovate sullo spiazzo antistante fu archiviato con una spiegazione convincente: servivano da riserva di carburante per la motozappa che il proprietario adoperava per coltivare l’orto.

Alfio fu molto solerte nel gestire il trambusto che seguì.

Organizzò il funerale con tanto di orazione funebre molto commovente. Offrì la sua casa per ospitare i parenti delle vittime che erano giunti dal capoluogo. Fu tra i più attivi a fornire informazioni ai giornalisti che preparavano i loro articoli su quella tragedia di provincia, non facendo mancare un accenno di commozione per la disgrazia che si era abbattuta su una famiglia perbene.

Il suo animo aveva finalmente trovato pace. Adesso quella cappelletta non era più minacciata da infedeli eretici che rappresentavano le forze del male. Raccogliendosi in preghiera davanti alla scultura del Crocifisso ormai riposta nel suo alloggiamento, gli parve di cogliere un segno di approvazione giungere dall’espressione sofferente del Cristo. Si ripromise di far fare al più presto quegli interventi di manutenzione di cui ormai il piccolo edificio necessitava e di arricchirlo con nuovi paramenti. 

Solo qualche giorno dopo, di primo mattino, Alfio si accorse che un gruppo di muratori stava tirando su un’impalcatura che si appoggiava sulla facciata della cappella.

Si avvicinò incuriosito e chiese spiegazioni ai lavoratori che però lo invitarono a rivolgersi in Comune.

«Noi sappiamo solo che dobbiamo apporre una scritta sulla parete» gli disse uno degli addetti.

«Quale scritta?» chiese Alfio preoccupato.

«La popolazione del paese, a perenne ricordo della famiglia Artusi» disse quello, leggendo il foglietto che teneva in mano.

Alfio si sentì come trafitto da uno sciame di vespe.

«Fermi, vi ordino di sospendere ogni lavoro» intimò con tono categorico.

Poi, vista l’inutilità delle sue richieste, prese la bicicletta e si avviò verso la piazza del paese dove si ergeva il Municipio.

Entrò come una furia e si avventò senza bussare all’interno dell’ufficio del sindaco.

«Chi ha dato l’autorizzazione ad apporre quella scritta sacrilega alla cappella ?» inveì senza nemmeno salutare.

«Si è riunita la Giunta che ha deliberato all’unanimità, non c’è nulla di sacrilego» rispose il sindaco dopo un attimo di sconcerto.

«Ma è noto a tutti che quella famiglia, quegli Artusi, erano degli atei mangiapreti» replicò Alfio ancor più agitato.

«A noi non risulta, proprio prima di quel terribile incidente avevano fatto una ricca donazione proprio per il restauro della cappella».

«Ma se non avevano mai partecipato a nessuna processione e mai messo piede in chiesa».

«Certo, tutta la famiglia era allergica all’incenso e si erano più volte scusati per la loro assenza». 

Alfio barcollò.

«La vendetta del diavolo; è stato lui, il demonio, solo il demonio può inscenare questi inganni e trasfigurare un empio in benefattore, un profanatore in un caritatevole finanziatore. Siamo stati tutti imbrogliati dal maligno» bofonchiò ormai allo stremo.

Poi si riprese e, aiutato dal personale del Comune, riuscì a raggiungere l’uscita.

Al ritorno, aveva le gambe così molli che non riusciva a spingere i pedali della bicicletta. 

Era frastornato e, nonostante gli sforzi, non riusciva ad alzare lo sguardo al cielo, qualcosa glielo impediva. 

Giunto a casa evitò accuratamente di soffermarsi, come era solito fare, davanti alla cappelletta. Poi, rivolto alla moglie che lo aspettava preoccupata, disse avvilito: 

«Ma lassù c’è veramente qualcuno?»

 

 

 

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